Michele Villa

Per un’ora di lavoro

29 agosto 2014

Michele Villa, Tecnico della prevenzione ASL, racconta il suo incontro inaspettato con alcuni operai al lavoro sui tetti, in compagnia del “pericolo di cadere”. Una testimonianza di come, a volte, il bisogno di lavorare porta ad accettare qualunque condizione critica, senza alcuna cautela nei confronti della propria persona o finanche del proprio figlio.

Percorrendo una strada provinciale, nel tardo pomeriggio di una giornata che sembra un anticipo di primavera, alzo gli occhi e vedo sull’angolo di un cornicione di un tetto un operaio che lavora e, quasi a proteggerlo, osservo allungarsi il braccio telescopico con cestello di un elevatore.
L’operaio dai capelli già grigi non è ancorato a nulla, ha accanto a sé … il pericolo di cadere.
Mi fermo ed, avvicinandomi al cantiere, lo invito a scendere. Non vuole! Un giovane si fa vedere dall’interno del cestello e manifesta ostilità. Le polemiche si protraggono e pure la distanza fisica permane: io sulla terra e loro in cielo. Finalmente si convincono a scendere ed iniziamo a parlare: sono padre e figlio.
Il figlio è impudente: “stavamo lavorando, cosa vuole?” (sembra privo dei basilari principi di sicurezza o forse recita bene, bho?). Il padre inizia un turpiloquio del quale mi fisso nella mente alcune frasi: “non lavoro da due anni, … è il primo lavoro dopo due anni … un lavoro di poche ore ed arriva il controllo”, “volevo uccidermi, ma poi ho pensato che voglio vivere sino a 87 anni”, “lei è fortunato, il governo la paga, invece a me chiede solo di pagare le tasse”.
Inopinatamente decido di salire con il padre sul cestello e salire verso il cielo, anche perché mi ha raccontato che “il titolare dello stabile non c’è! La moglie è molto malata! Non vi è altro modo di salire sul tetto”. Voglio vedere come opera lassù. E’ veramente “lassù”, tanto che avverto paura e, quando la vetta non è ancora raggiunta, gli chiedo di tornare a terra. “E’ una follia lavorare sul tetto senza protezioni adeguate” dico al padre.
Nella discesa osservo sul tetto vicino un’altra persona, anche lui con la compagnia del pericolo di caduta. Appena sceso vado dall’altro “acrobata”, quando gli parlo fa finta di niente per poi scattare sul tetto pendente e scomparire, prima ancora del mio scatto fotografico col cellulare. Un attimo dopo è accanto a me: è grigio di capelli pure lui ed ha un volto triste: “Mi chiamo Giovanni e sono disoccupato da qualche anno, per un’ora di lavoro sono disposto a tutto: dobbiamo pur mangiare io e i miei figli”.
Intanto “padre e figlio” sono di nuovo sul tetto, devono finire il lavoro! Il padre è imbracato ed affrancato ad un camino, il figlio non mi pare. Nel frattempo è arrivato il titolare dello stabile con la moglie e mentre parliamo, Giovanni è anch’esso già risalito sul tetto e dopo aver velocemente ultimato il suo intervento mi è di nuovo accanto e si parla del lavoro che non c’è più. Il titolare, avendo compreso il rischio che “padre e figlio” stanno correndo, vuole farli scendere ed io suggerisco di usare cautela: non voglio vederli affacciarsi dal cornicione. A quel punto il titolare mi parla della presenza di un lucernario, tanto che proprio da lì inizierà la discesa da “lassù” del figlio mentre il padre deve utilizzare il “cestello”, del quale non ha molto dimestichezza (l’ho verificato di persona).
L’ora di paura è finita .. bene!?
Temo d’incontrare ancora “padri e figli” e altri Giovanni sui tetti con accanto solo il pericolo di caduta e poco altro, perché se una volta si cantava “per un’ora d’amore” di questi tempi il motto potrebbe diventare “per un’ora di lavoro”.

* Michele Villa è TdP (Tecnico della Prevenzione ambienti di lavoro)

Scarica qui l’intervento completo in formato PDF. Questo intervento lo trovi anche nella Rivista Quaderni Flash n°16, Aprile 2014, a pag. 3


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